Casa della cultura, 70 anni e poi?
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Il 16 marzo, a chiusura di una tre giorni di eventi, la Casa della Cultura di Via Borgogna festeggia 70 anni di vita. Fondata da Ferruccio Parri, Antonio Banfi, Elio Vittorini ed Eugenio Curiel, la Casa è stata per decenni il laboratorio culturale delle diverse famiglie laiche e progressiste di Milano, tradizionalmente aperte alla grande cultura europea. Una straordinaria storia di costruzione culturale, di diffusione delle idee, di forgiatura del pensiero in osmosi con il ceto politico nelle diverse stagioni della sinistra milanese e italiana. Pur dentro il perimetro del progressismo storico, la Casa è stata plurale, e ha ospitato le migliori voci del socialismo europeo, del cattolicesimo critico, della sinistra storica e antagonista. Basti pensare alla direzione, tra il 1983 e il 1992, di Sergio Scalpelli, poi coideatore e fondatore di Fastweb. Il libro “ad eventum” dell’attuale direttore Ferruccio Capelli getta uno sguardo sul futuro della casa. Tramontate le ideologie e offuscato il quadro valoriale del secondo Novecento – si domanda sul finale Capelli – quale può essere la ragione di una Casa come quella di Via Borgogna? La risposta di Capelli è problematica, e parla di una nuova centralità del “cittadino” (con il suo vissuto sociale, e dunque con il “noi” di cui è parte) e della proposta di un “nuovo umanesimo”, come invito a “prendere sul serio la dignità della persona” dopo trent’anni di “dominio liberale”. Una proposta, a ben vedere, piuttosto in linea con la debolezza dei tempi. Il “nuovo umanesimo” rischia di risolversi in fondo in un soggettivismo ben temperato da buone intenzioni sociali, una buona educazione civica che rischia di dire poco al pubblico, soprattutto di sinistra. Tanto più che lo slogan umanista suona all’orecchio italiano come il ripescaggio della proposta cattolica: “nuovo umanesimo” è tra le parole chiave di Bergoglio e del cardinale Angelo Scola. Certo, un compromesso storico sulla centralità dell’umano è possibile. Ma è auspicabile? C’è da domandarsi se serva di più a Milano una Casa della Cultura che ondeggi sul politically correct o se non sia bene tornare alla sua diversità.